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![]() OTTOMANA, AMMINISTRAZIONE Nell'impero ottomano capo dello stato, con autorità assoluta nei limiti della legge religiosa, era il sultano (Sultân, Pâdishâh; detto Gran Signore o Gran turco dagli autori cristiani) che dal 1774 (pace di Küçük Kaynarca) pretese, in contrasto con la dottrina musulmana, di essere riconosciuto dalle potenze europee come califfo, titolo previsto dalla costituzione del 1870 e del 1908, poi abolito nel 1924 (soppressione del califfato). La corte del sultano, divisa dal XV secolo in pubblica e privata, era retta rispettivamente dal capo degli eunuchi bianchi (Qapï Aghasï, "agha della Porta") e dal capo degli eunuchi neri (Qïzlar Aghasï, "agha delle donne"). Dal XVI secolo si fece sentire a corte l'influenza delle donne dell'harem, tra cui la favorita che, se il figlio saliva al trono, come sultana-madre (vâlide) continuava a ingerirsi negli affari di stato. La successione non era regolata in maniera certa; in pratica saliva di solito al trono il maggiore dei figli viventi del sultano defunto, che consolidava il proprio potere (secondo un'usanza introdotta da Bâyazîd I) facendo mettere a morte i fratelli. Nel 1603, con Ahmed I, si inaugura il principio della successione del maggiore della dinastia. L'organizzazione del governo prevedeva una serie di uffici o "porte" (qapï in turco, bâb in persiano), il più importante dei quali (bâb-i âlî o Sublime porta) era affidato al gran visir e si occupava degli affari generali; agli affari religiosi e giudiziari sovrintendeva la seconda carica dell'amministrazione, il gran muftî, o sheikh ul-Islâm, il cui parere (fetwa) aveva grande peso. Altri funzionari importanti erano i defterdâr che amministravano le finanze e i due giudici supremi (qâdî àsker) per la Turchia europea o Rumelia (Paese dei rûm, cioè dei "romani") e rispettivamente per l'Anatolia. Dal 1830 entrò in funzione un consiglio dei ministri di tipo europeo, che sostituiva il tradizionale consiglio imperiale (dîwân-i humâyûn). Fino al XIX secolo il territorio era diviso in eyâleh, o grandi province, rette da beylerbey, "bey dei bey" (bey), che alla fine del XVI secolo, epoca della massima estensione, erano ventotto: Rumelia (poi ulteriormente suddivisa in Rumelia, Silistria e Morea), Bosnia, Temesvar, Buda, Anatolia, Qaraman, Isole dell'Egeo (con Gallipoli e Smirne, dipendenti dal qapudân pascià, il comandante della flotta ottomana), Cipro, Erzerum, Damasco e Palestina, Tripoli, Aleppo, Qars, Trebisonda, Crimea, Mosul, Baghdad, Basrah, Costa arabica, Yemen, Abissinia, Egitto. Regimi particolari avevano le tre province di Tripoli, Tunisi e Algeri, lo Higiâz in quanto sede dei principali luoghi santi dell'Islam. Le eyâleh erano suddivise in sangiaccati (sangiâq) governati da bey. Questo ordinamento fu modificato nel 1864 con l'introduzione dei vilâyet; alla vigilia della Prima guerra mondiale i possedimenti immediati dell'impero ottomano erano ripartiti in 23 vilâyet suddivisi in 59 livà e 422 kazà ulteriormente frazionati in nâhiyeh. A questi territori si dovevano aggiungere quelli amministrati da stati stranieri, come Cipro, sotto occupazione britannica dal 1878, Rodi e le isole dell'Egeo occupate dall'Italia nel 1912; e gli stati semisovrani come l'Egitto e il Sudan. Le forze armate utilizzarono fin dall'inizio, a fianco dei soldati turchi, contingenti di prigionieri di guerra e mercenari, tanto a cavallo (musellem) quanto a piedi (yâyâ); una prima riforma della fanteria portò nel XIV secolo alla formazione del corpo dei giannizzeri. All'apogeo dell'impero ottomano le forze armate si ripartivano in tre categorie: qapïqulu o "schiavi della Porta", unità permanenti, stipendiate e accasermate, costituite in primo luogo dai giannizzeri; toprâqlï o territoriali a cavallo, detti anche sipâhî, retribuiti grazie alle imposte gravanti su terre di non musulmani, a essi assegnate sotto forma di tîmâr, una forma impropria di rapporto feudale; truppe degli stati vassalli (tatari di Crimea, cristiani della Transilvania e dei principati danubiani), a cui si univano durante le campagne unità di volontari e guerriglieri (âqïnci). La marina reclutava gli equipaggi tra gli abitanti delle coste del mar Nero, del mar di Marmara e dell'Egeo; ai remi e negli arsenali venivano fatti lavorare molti prigionieri cristiani. Il fisco ottomano era alimentato dalle prede di guerra; dalla gizyah o kharag, il testatico gravante sui sudditi non musulmani; dall'imposta proporzionale sui prodotti delle terre (ushur, "decima") e dall'imposta fondiaria fissa (cift resmi); da imposte sul bestiame e sui mulini; da diritti doganali e tributi imposti a stati vassalli, da imposte di consumo, appalti ecc. La maggior parte delle entrate era destinata a far fronte, in misura che col tempo risultò sempre più inadeguata, alle necessità di un apparato statale capillare e, malgrado le opinioni correnti in Europa, non fatalmente votato all'inefficienza. Sultani e alti funzionari tentarono ripetutamente di riformare le basi del potere, combattendo la corruzione che imperversava per esempio tra i giannizzeri e gli appaltatori delle imposte. La crisi finanziaria dell'impero si aggravò di pari passo con il declino della sua potenza militare: ogni provincia perduta era un cespite di entrate in meno per l'erario, mentre le spese non diminuivano proporzionalmente per la necessità di mantenere sotto le armi truppe sempre più demoralizzate, ma non per questo meno turbolente, ostili come i giannizzeri all'introduzione di criteri di arruolamento e addestramento moderni che si sarebbero tradotti in una soppressione di privilegi tradizionali. Donde una diffusa opposizione dei militari alla modernizzazione voluta dai sultani e dagli statisti più illuminati; falliti i tentativi avviati con l'istituzione del nizâm-i gedîd da parte di Selîm III, Mahmûd II si vide costretto nel 1826 a distruggere fisicamente il corpo dei giannizzeri e ad abolire il sistema del tîmâr, che forniva ancora dai venti ai trentamila cavalieri. L'aggravarsi della situazione finanziaria indusse nel 1854 l'impero ottomano a contrarre il suo primo prestito estero, imboccando la via di un indebitamento crescente. Incapace di rimborsare interessi e capitale, la Sublime porta dovette accettare ingerenze politiche da parte dei paesi creditori, che agevolarono l'ulteriore penetrazione del capitale occidentale. Alla vigilia della Prima guerra mondiale l'impero ottomano era ridotto a una condizione non sostanzialmente dissimile da quella di una colonia. ![]() A.D. Alderson, The Structure of the Ottoman Dinasty, Oxford Clarendon Press, Londra 1956; A. Levy, Military Reform and the Problem of Centralization in the Ottoman Empire in the Eighteenth Century, in "Middle Eastern Studies", XVIII, 1982. |
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